Il carcere dell’Asinara dagli anni Settanta al 1998, anno della sua effettiva chiusura, è stato un Carcere di Massima Sicurezza, nel quale sono stati rinchiusi criminali affiliati alle organizzazioni politiche di estrema destra ed estrema sinistra che in quegli anni agivano sul territorio italiano e i capi delle associazioni malavitose. Prima di diventare Carcere di massima sicurezza l’Asinara è stata dapprima una Colonia Penale e in seguito un Penitenziario nel quale sono stati reclusi gran parte dei banditi e criminali sardi. Nel presente articolo ci si è voluti soffermare sull’evolversi della storia di questo particolare luogo di detenzione, con particolare attenzione ai tempi più recenti e ai detenuti che hanno segnato la storia del carcere, grazie anche alla testimonianza del Maresciallo Lorenzo Spanu che era in quegli anni capo della polizia penitenziaria all’Asinara.

Le colonie penali in Sardegna

carceri asinara

Già prima che le “guerre d’indipendenza” portassero ad unificare i vari stati che si dividevano il territorio della penisola in un unico regno, si sviluppò, soprattutto presso le corti dei sovrani più “illuminati”, un intenso dibattito sul ruolo che dovevano ricoprire i penitenziari. Fu nel Granducato di Toscana che nel 1858 venne approvata e subito attuata la decisione di istituire, in via sperimentale, una colonia penale, con l’intento di trasformare il carcere, da mera istituzione detentiva, in luogo di recupero e rieducazione per giovani detenuti, definiti non a caso “corrigendi”.

La località prescelta fu l’isoletta di Pianosa, al largo della costa toscana ed il successo fu tale che, in poco più di un anno, il numero dei detenuti coloni aumentò dagli iniziali 16 a 120 “corrigendi”, che lavoravano duramente nel lavoro dei campi e nell’allevamento del bestiame.

Dopo l’Unità furono molte le proposte di estensione dell’esperienza di Pianosa ad altre colonie penali ed in una circolare del Ministero dell’Interno del 1870 si precisava che potevano essere avviati alle colonie agricole solo detenuti di sana e robusta costituzione, che non avessero commesso omicidi, che avessero tenuto fino ad allora un comportamento esemplare e che avessero già scontato almeno metà della loro pena. La prima regione in cui si sperimentò l’apertura di nuove colonie agricole fu la Sardegna e, più precisamente, a Cagliari e ad Alghero, nei pressi dei rispettivi “bagni penali”.

Nel 1885 nacque la colonia penale dell’Asinara, anche se venne istituita con scopi sostanzialmente diversi da quelli che avevano indotto il governo italiano a creare le altre simili strutture carcerarie.

Infatti la legge istitutiva della colonia sull’isoletta a nord-ovest della Sardegna, prevedeva anche la costruzione di un lazzaretto per la quarantena degli equipaggi delle navi sospettate di trasportare viaggiatori affetti da malattie contagiose.

 

La stazione sanitaria

stazione sanitaria

Il progetto di realizzare un lazzaretto sull’isola dell’Asinara ha origine nel XVIII secolo: già nel 1701, in seguito al naufragio nelle acque dell’isola, i viaggiatori di una nave francese furono costretti alla quarantena. Nel 1721 l’amministrazione della città di Sassari chiese di provvedere alla costruzione di un lazzaretto presso la basilica di San Gavino a Porto Torres, ma la proposta non ebbe seguito. Così anche nel 1772 un’analoga proposta cadde nel vuoto. Nel corso del 1800 ogni qualvolta si aveva notizia di possibili epidemie, il progetto veniva ripresentato ma, nonostante nel 1838 il Viceré di Sardegna Montiglio deliberò la costruzione di un piccolo stabile contenente un ospe- dale, alcune stanze per gli impiegati sanitari, alcuni magazzini e due cortili, per due differenti quarantene separate, anche questa volta l’idea fu accantonata a causa delle ele- vate spese necessari alla sua realizzazione6. Si arrivò così al 1885, anno in cui la proposta per la creazione di un lazzaretto sull’Asinara venne presentata alla Camera dei deputati insieme alla istituzione della colonia penale agricola.

Questa volta si fece sul serio ed i lavori per la costruzione della “Stazione Sanitaria Marittima Quarantenaria” iniziarono immediatamente e già il 17 agosto dello stesso anno, la nave francese “Phitias” fece la quarantena sull’isola. Alla fine dell’Ottocento i lavori di realizzazione del lazzaretto era già conclusi; le opere costruite consistevano in un edificio a due piani per uffici e alloggio della direzione e del medico, un fabbricato per le cucine e i refettori dei ricoverati di prima e seconda classe, una lavanderia a vapore, un ufficio postale, la cucina e la mensa per i viaggiatori di terza classe, un fabbricato per provvedere alla disinfezione, un dormitorio con 300 posti letto per i viaggiatori di terza classe, due padiglioni con 56 posti letto per i viaggiatori di seconda classe. L’ospedale era dotato di 30 letti, una sala operatoria, un forno crematorio, un laboratorio batteriologico, una farmacia.

Vi erano inoltre depositi per il carbone e per i disinfettanti e due cisterne per la raccolta dell’acqua. In una zona distante qualche chilometro da Cala Reale vi erano tre fabbricati di circa centocinquanta posti letto ciascuno chiamati “periodi”, che distavano un chilometro l’uno dall’altro ed in cui i viaggiatori infetti trascorrevano le tre fasi successive della quarantena.

In quegli anni la Stazione Sanitaria operò intensamente ospitando civili e militari infetti da colera, peste bubbonica, meningiti. Fu soprattutto negli anni della grande guerra che sull’isola vennero deportate migliaia di prigionieri austro-ungarici e l’isola si trasformò in un campo di prigionia. I primi prigionieri (1.259) arrivarono nell’agosto del 1915 e dopo il periodo di controllo sanitario furono trasferiti in altre località. Il 18 dicembre dello stesso anno i piroscafi “Dante Alighieri” e “America” sbarcarono sull’isola quasi 4.000 prigionieri, la cui presenza mise a durissima prova le inadeguate strutture del lazzaretto. Due giorni dopo la nave “Cordova” sbarcava altri 1.500 passeggeri, tra cui anche donne e bambini. La presenza di tante persone provocava nell’isola uno stato di emergenza continua: gli sbarchi si succedevano l’uno all’altro ed era ormai impossibile provvedere ad un’assistenza dignitosa. Furono mandati sull’isola capi di abbigliamento: giubbe, mantelli, berretti, mutande, e pezze da piedi; generi alimentari come pasta, riso, farina, gallette, alimenti in scatola; giunsero nell’isola anche forni da campagna, tende, quintali di paglia, gavette di latta. Dalla vicina Colonia Penale Agricola arrivavano approvvigionamenti di pane, carne, formaggio, verdura e legname. Per ospitare in condizioni di vita accettabili la moltitudine dei prigionieri, furono costruiti rudimentali accampamenti nella parte meridionale dell’isola: a Stretti, a Tumbarino, a Campu Perdu, a Fornelli. Intanto il colera mieteva vittime: coloro che morivano sulle navi venivano direttamente gettati in acqua e spesso si doveva cambiare località di ancoraggio perché il mare intorno alle navi pullulava di cadaveri in putrefazione. I morti nelle baracche e nelle tende restavano al loro posto e i sopravvissuti dormivano accanto ad essi o più spesso i superstiti nascondevano i cadaveri per impossessarsi della loro razione di viveri o per depredarli di ogni cosa.

Lo stato di salute dei prigionieri era pessimo; vestiti di stracci e denutriti vivevano sparsi nella campagna rendendola così lorda da emanare un fetore orribile che appestava l’aria e migliaia di mosche si spargevano ovunque. Superati quei tragici giorni il comandante della Stazione generale Giuseppe Carmine Ferrari riuscì a risollevare il morale dei prigionieri formando squadre di boscaioli e giardinieri che lavorarono a ripulire da erbacce tutta la zona di Cala Reale; fu realizzato un giardino con fichi d’india e agavi, furono messi a dimora gerani e altre piante da fiore, furono creati viali coperti di ghiaia. Nei mesi successivi vennero costruiti piccoli cimiteri nei pressi delle varie diramazioni, con piccole cappelle e monumenti celebrativi in pietra. Tra i prigionieri vi era chi coltivava il terreno o allevava bestiame, altri riparavano le scarpe, costruivano utensili in terracotta o in metallo e realizzavano rudimentali strumenti musicali in legno con cui la sera si tenevano concerti di musiche viennesi o zigane. Per tutti coloro (furono migliaia) che però non riuscirono a superare lo stato di malattia e di denutrizione furo- no scavate nella roccia profonde fosse comuni che contenevano migliaia di corpi. Nel 1916 la Commissione per i prigionieri di guerra degli Stati alleati decise di trasferire un gran numero di detenuti dall’Asinara alla Francia o ad altre destinazioni; dopo la partenza di circa 10.000 uomini, sull’isola rimasero soltanto prigionieri di nazionalità italiana e quelli non ancora in buone condizioni di salute.

Prima di lasciare l’Asinara, i rappresentanti di ciascun contingente manifestarono la loro gratitudine alle autorità italiane per l’umanità con cui erano stati trattati. Quella terribile pagina della prima guerra mondiale si concluse così in un clima di fratellanza.

Superato il periodo critico concomitante con la prima guerra mondiale, gran parte dell’Asinara fu smilitarizzata e la Stazione Sanitaria passò alle dipendenze del Ministero della Sanità. La struttura continuò a svolgere la sua funzione negli anni successivi e fino alla seconda guerra mondiale ospitando e ponendo in isolamento i viaggiatori di navi “sospette”. Nel 1937, dopo la conquista dell’Etiopia, vennero sbarcati sull’isola centinaia di soldati abissini, prigionieri di guerra, tra cui sembra che ci fosse anche la figlia del negus Ailè Selassiè, che successivamente furono trasferiti in campi di concentramen- to. Nel corso della seconda guerra mondiale l’isola dell’Asinara fu dotata di fortini e difese contro un eventuale sbarco; le strutture della Stazione Sanitaria furono abbando- nate e la vicina Colonia penale, sovraffollata di detenuti, ne chiese l’utilizzo. Negli anni del secondo dopoguerra, grazie alla sconfitta delle maggiori epidemie, con l’introduzione dei vaccini, veniva meno la ragione stessa dell’esistenza dei lazzaretti, in quanto del tutto inutili i periodi di quarantena.

Nel 1939 la direzione sanitaria dell’Asinara fu soppressa e la struttura venne posta alle dipendenze del medico provinciale di Sassari, finché lentamente la sua esistenza cessò per mancanza di utilizzo.

 

L’isola diventa carcere

carcere fornelli

Con Legge 28 giugno 1885 n. 3183 venne sancito l’esproprio delle terre per i circa 500 abitanti dell’isola dell’Asinara e di istituirvi una colonia agricola penale; gli ex occupanti del luogo decisero di stabilirsi presso Stintino e ivi di ricreare le varie attività di pesca, agricoltura e pastorizia cui erano dediti in precedenza. Insieme alla colonia penale fu istituito il Lazzaretto che venne posto sotto le dipendenze del Ministero della Marina. La costruzione delle infrastrutture necessarie occupò il primo cinquantennio della colonia, che subì ritardi, a causa dello scoppio della prima guerra mondiale e della successiva entrata in guerra dell’Italia nel 1915.

L’ amministrazione della Giustizia era, in quel periodo, sotto le dipendenze del Ministero degli Interni.

Negli anni successivi la prima guerra mondiale l’amministrazione dell’isola venne suddivisa fra tre Ministeri: Ministero della Marina per i fari di Punta Scorno e della Reale; Ministero della Sanità dalla Stazione Sanitaria Marittima della Reale a Trabuccato e, infine, Ministero di Grazia e Giustizia che aveva il controllo su tutto il restante territorio, utilizzato come casa di lavoro all’aperto. Nei primi anni venti venne istituito il primo servizio di posta che veniva effettuato con un’imbarcazione a vela latina, chiamata “Postalino”.

Durante il ventennio fascista l’Italia si impegnò in una sanguinosa e durissima impresa di conquista dell’Etiopia, in seguito alla quale «nel 1937, un nuovo ciclone si abbattè sulla Stazione: sul piroscafo “Toscana” proveniente da Massaia, diverse centinaia di soldati etiopici furono trasportati all’Asinara per essere sottoposti a bonifica, osservazione e contumacia»13. Sempre in quel periodo furono costruiti sull’isola fortini e postazioni di difesa contro lo sbarco di nemici, di cui ancora oggi sono presenti i resti in alcune zone dell’isola e anche in alcuni toponimi.

Negli anni della seconda guerra mondiale l’Asinara non fu coinvolta, al contrario di altre zone della Sardegna, in alcuna operazione bellica, eccetto l’affondamento della corazzata italiana “Roma”, che avvenne il giorno successivo in cui fu reso noto l’armistizio, il 9 settembre del 1943, al largo di Punta dello Scorno. In quegli stessi anni cessò l’attività della Stazione Sanitaria che venne adibita ad ospitare coloro che dovevano stazionare per un breve periodo nell’isola perché imputati di avere contatti con la mafia, l’organizzazione criminale siciliana. Alla fine della guerra, l’Amministrazione carceraria riprese il controllo dell’isola organizzando una colonia agricola penale, ottimamente organizzata e all’interno della quale si coltivavano cereali, ortaggi e vigneti, e dove i carcerati erano dediti anche all’allevamento. Attraverso tutte queste attività i detenuti erano civilmente occupati e producevano alimenti destinati non solo a sfamare la “popolazione” carceraria, ma anche le guardie carcerarie e le loro famiglie che abitavano l’isola. Negli anni Sessanta l’Asinara fu interessata dalla fiorente costruzione di infrastrutture e opere, come la formazione di bacini artificiali e interventi portuali per favorire lo sbarco delle imbarcazioni sulle coste frastagliate e scoscese dell’isola. Gli anni Settanta, detti anche “anni di piombo”, videro sbarcare sull’Asinara e arrivare nel carcere detenuti considerati di notevole pericolosità, come i brigatisti Renato Curcio, Alberto Franceschini e i nappisti Giuliano Naria e Roberto Ognibene. A questo punto si arrivò alla decisione, da parte degli abitanti di Porto Torres, di svincolare l’isola dal ruolo di carcere a causa dell’immenso patrimonio di flora e fauna ivi presente. Nell’ottobre del ’67 si svolse presso l’Hotel Lybissonis di Porto Torres un convegno dove si discusse della “liberazione” dell’isola16, ma in quegli anni l’interesse per l’Asinara ricadeva nella sfera solo degli scienziati e dei naturalisti e non nel mondo politico e soprattutto dei cittadini e così la proposta di istituire un parco nell’isola fu rimandata al 1978 grazie ad un disegno di legge firmato dal deputato sardo Mario Segni.

Fu nel 1984 che riprese la battaglia dei turritani e si svolse nella città un convegno, promosso dal sindaco Dino Dessì, in cui venne rilanciata l’idea del parco e l’amministrazione di Porto Torres richiese allo Stato la restituzione di metà del territorio dell’isola. Da questo momento in poi si fece sempre più diffuso il movimento d’opinione favorevole alla “liberazione” dell’isola dalla colonia penale.

Un altro disegno di legge, questa volta del deputato Alberto Manchinu, propose la dismissione della colonia penale dell’Asinara e la restituzione dell’isola agli usi civili. Nel 1986 il sindaco di Porto Torres, Rodolfo Cermelli, scrisse una lettera al Ministro di Grazia e Giustizia nella quale proponeva una convivenza sull’isola del parco e della colonia penale. Nell’aprile del 1988 il senatore Montresori e tutti i deputati sardi presentarono un disegno di legge che prevedeva il trasferimento dell’isola dal Demanio Statale alla Regione Sarda per l’istituzione di un parco naturale. In seguito a questa richiesta si sviluppò, però, una protesta da parte dei cittadini turritani che si vedevano privare di un territorio che apparteneva loro di diritto e, grazie allo sviluppo turistico, avrebbe potuto costituire un’importante valvola di sfogo per l’economia della città messa in ginocchio dalla crisi dell’industria petrolchimica che aveva avuto inizio negli anni Settanta, dopo il crack del petroliere Nino Rovelli. L’apice di questa protesta venne raggiunto in occasione della manifestazione del 20 agosto 1988, quando il sindaco di Porto Torres, Rodolfo Cermelli, con 700 concittadini sbarcarono a Cala Sant’Andrea e si tuffarono nelle acque dell’Asinara, destando subito l’attenzione della stampa e dei mass media.

Ma i lavori per trasformare la colonia penale dell’Asinara in un Parco rallentarono e nel 1989 il Direttore generale degli Istituti di Pena, Niccolò Amato, illustrò ai rappresentanti istituzionali sardi la sua proposta di creare un villaggio penitenziario per detenuti a basso indice di pericolosità, con obiettivi di reinserimento sociale e professionale per i detenuti. Nel 1991, quando sembrava prendere piede la proposta di un “carcere leggero”, il Senato approvò il disegno di legge sulle aree protette: fra queste, per quanto riguarda la Sardegna, oltre al Gennargentu e al golfo di Orosei, veniva inserita l’Asinara. Dopo una serie di incontri in cui non si riuscì a giungere ad un compromes- so tra il Ministero di Grazia e Giustizia e gli abitanti del luogo, si arrivò al giugno del 1992 alla firma di un’intesa tra Stato e Regione che sanciva l’istituzione del Parco Nazionale sardo. Ma la situazione italiana precipitò nel 1992 quando una serie di attentati mafiosi suscitarono un clima di tensione generale. Il 23 maggio 1992 infatti, in un attentato a Capaci, vicino a Palermo, venne ucciso il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta; solo due mesi dopo, il 19 luglio, in via D’Amelio a Palermo venne ucciso il giudice Paolo Borsellino con cinque agenti della scorta21. I due giudici siciliani in quel periodo compivano delle importanti indagini che avrebbero reso noti molti nomi di boss mafiosi e, soprattutto, avrebbero rivelato la partecipazione di alcuni alti funzionari dello Stato in loschi affari, il cosiddetto “terzo livello”, quello politico .

Conseguentemente a questi due gravi episodi, il Governo decise di ripristinare il carcere di massima sicurezza per coloro i quali erano imputati di reati legati alla mafia, applicando così il noto art. 41 bis del Nuovo Ordinamento Carcerario. Mentre in Sardegna venne firmata l’intesa per l’istituzione del Parco dell’Asinara, sull’isola venne ripristinata la diramazione di massima sicurezza di Fornelli e vennero trasferiti sull’isola i detenuti più pericolosi, con grande disinteresse nei confronti delle proteste della popolazione locale: lo Stato, per la ricostruzione di alcune infrastrutture, stanziò 70 miliardi di lire. Comunque il Ministro di Grazia e Giustizia, Claudio Martelli, assicurò che il carcere dell’Asinara sarebbe stato utilizzato solo per un breve periodo e che, entro il dicembre 1995, sarebbe stato dismesso per permettere la realizzazione del Parco nazionale.

Nel 1995 si giunse però ad un compromesso, cioè suddividere l’isola in due parti: una adibita a carcere e l’altra dove iniziare a porre le basi per la nascita del Parco. Il 28 ottobre il Presidente della regione Sardegna, Federico Palomba, annunciò la firma di un accordo fra Stato e Regione per l’istituzione del Parco, mentre, quello stesso giorno, facevano ritorno all’Asinara “ospiti illustri” come Totò Riina e Leoluca Bagarella, importanti boss della mafia siciliana. Nello stesso anno il Consiglio dei Ministri votò una proroga di altri quattro anni per la presenza del carcere, facendo slittare la creazione del Parco al 1999. Nel gennaio del 1996 un altro detenuto di grande pericolosità arrivò al carcere dell’Asinara, Renato Vallanzasca, bandito milanese a capo di una feroce banda di rapinatori; la reazione degli abitanti di Porto Torres non tardò ad arrivare: il sin- daco e il Consiglio Comunale minacciarono di dimettersi nel caso in cui il Governo non avesse mantenuto gli impegni precedentemente presi e il deputato Giampaolo Nuvoli invitava gli altri parlamentari sardi a fare altrettanto. Il 7 febbraio 1996 il Consiglio Comunale turritano si riunì in piazza Montecitorio a Roma, davanti alla Camera dei Deputati, per manifestare contro il Governo che non aveva adempiuto alla promessa di dismettere il carcere entro il 31 dicembre del 1995.

In Giugno arrivò anche il parere negativo sull’effettiva necessità del carcere dell’Asinara: sembrava quindi che la realizzazione del Parco fosse sempre più vicina, ma contemporaneamente cresceva il malcontento delle 330 guardie carcerarie, 150 delle quali abitavano a Porto Torres. Il 28 novembre 1997, anno decisivo per la creazione del Parco, venne emanato il Decreto di perimetrazione provvisoria e le prime norme di salvaguardia; nel gennaio dell’anno successivo, dopo la partenza degli ultimi agenti della Polizia Penitenziaria dall’isola, si insediò il primo nucleo del Corpo Forestale e di Vigilanza Ambientale in collaborazione con la Capitaneria di Porto turritana.

Il Parco cominciò ad operare effettivamente nel 1999 e nel giugno del 2000 il controllo dell’intero territorio dell’isola e delle infrastrutture in essa presenti fu assegnato alla Regione Sardegna, ma restarono allo Stato alcune zone per usi governativi.

Gli anni del supercarcere

carceri asinara

Il 25 luglio 1971 sbarcano nell’isola 15 detenuti accusati di reati legati all’organizzazione mafiosa. Inviati in un primo momento presso il carcere di Filicudi, in seguito alle proteste di 250 abitanti dell’isola vengono destinati dal Ministero di Grazia e Giustizia al carcere dell’Asinara, sede, allora, di una colonia penale agricola. La decisione destò il malcontento dell’amministrazione comunale di Porto Torres che proprio in quegli anni lottava per ottenere lo smantellamento della colonia penale in favore di un Parco Nazionale.

Porto Torres è sede in quegli anni dell’industria petrolchimica, ma i territori ceduti allo sviluppo di questa industria hanno sacrificato aree a vocazione turistica e quindi i turritani vedono nell’Asinara un immediato sbocco per promuovere questo settore in via d’espansione in tutta la Sardegna. Ma appena si viene a sapere che il carcere ospiterà i 15 presunti mafiosi, è subito chiaro per tutti che l’ipotesi di un Parco o comunque di uno sbocco turistico dell’isola si fa sempre più lontana, anche a causa delle sempre maggiori misure di sicurezza dovute alla presenza di detenuti pericolosi. I nomi di coloro i quali erano indagati di avere presunti legami con organizzazioni criminali e in particolar modo con la mafia sono: Calogero Sacco, Antonino Buccellato, Tommaso Scadu- to, Gaetano Accardi, Nino Bonventre, Diego Gioia, Gaetano Badalamenti, Giuseppe Chiaracane, Nicola Cancelliere, Calogero Sinatra, Vincenzo Ragona, Giacomo Coppola, Mario Brusca, Luigi Cali e Rosario Terrasi; a Settembre a questi nomi se ne aggiungono altri 18 tra cui Totò Riina e Giuseppe Brusca. Per tutti i detenuti il comune di Porto Torres è obbligato a pagare 750 lire al giorno, un anticipo che grava sulle casse comunali di un’amministrazione che è completamente contraria alle decisioni che hanno interessato l’isola. Se agli inizi degli anni Settanta si poteva ancora parlare di colonia penale agricola, ormai, arrivati a metà del decennio, l’Asinara è diventato a tutti gli effetti un carcere di massima sicurezza: a Cala Reale si trovano 7 presunti esponenti della mafia siciliana e 28 dei clan calabresi. Dal nucleo originario che è arrivato sull’isola, nel 1971, ben pochi dei nomi famosi sono rimasti; i maggiori boss sono riusciti a farsi trasferire in altre carceri più vicine ai loro paesi d’origine e quindi più comodi per presenziare ai vari processi ancora i corso nei loro confronti, altri grazie a piccole rivolte o a degli scioperi della fame hanno ottenuto di scontare la loro pena godendo di relative facilitazioni e privilegi. A metà degli anni Settanta i detenuti che “soggiornano” all’Asinara sono 500, di cui 120 obbligati alla reclusione coatta nel carcere di Fornelli, e 200 nella casa di lavoro all’aperto. I restanti 80 sono divisi tra Campu Perdu, Tamburino, Cala d’Oliva e Case Bianche, nomi delle diverse diramazioni del Carcere. Nello stesso periodo, due importanti Generali visitano il carcere dell’Asinara, Carlo Alberto Dalla Chiesa e Giuseppe Galvaligi che affermano che il penitenziario è adatto a ricevere detenuti di maggiore pericolosità. Arrivano così all’Asinara molti detenuti provenienti da altri penitenziari, come il gruppo di 38 detenuti che proviene dal carcere di Messina. All’interno di varie carceri italiane scoppiano, in quel periodo, varie rivolte legate alle forti misure di sicurezza prese all’interno dei penitenziari, “in questi anni all’interno delle carceri italiane si respira un clima di grande tensione che sfocia molto spesso in sommosse e violente proteste dei reclusi”. Ma queste violente sommosse scoppiano anche per la presenza all’interno delle carceri, oltre che di “normali” detenuti e persone imputate di crimini legati ad organizzazioni criminali come la mafia e la camorra, di detenuti legati ad organizzazioni politiche come i brigatisti e i nappisti, accusati di aver trasformato lo scontro politico di quegli anni in scontro armato.

Per attenuare il clima di violenza nelle carceri, lo Stato decide di trasferire i detenuti cosiddetti “politici” da altri penitenziari italiani alla colonia penale dell’Asinara, considerata, per la sua posizione isolata e lontana dai centri abitati, più sicura per la detenzione di questi reclusi. Per questo motivo vengono trasferiti all’Asinara i più importanti esponenti della lotta armata: Giuliano Naria, Alberto Franceschini, Roberto Ognibene, ma anche, per un breve periodo Sante Notarnicola, il bandito della banda Cavallero e il fascista Bertoli. Il 13 maggio 1977 arriva Renato Curcio, capo storico ed ideologo delle Brigate Rosse, che era evaso in precedenza nel 1975 dal carcere di Casale Monferrato. Tutti questi detenuti vengono sistemati nel ramo di Fornelli dove c’è il Bunker, struttura adibita appunto a massima sicurezza in quanto costruita in cemento armato e cir- condata da filo spinato; è lo stesso luogo dove quasi un secolo prima si era formata la colonia penale agricola che ospitava 50 detenuti, 20 guardie carcerarie e 12 buoi.

 

In questi anni cambia anche la direzione del carcere che va al siciliano Luigi Cardullo che lo dirigerà per otto anni, i cosiddetti anni del super carcere, con una spietatezza inaudita conquistandosi subito la fama di duro: veniva chiamato dagli stessi agenti dell’Asinara “il viceré” e si fece la fama di direttore carcerario più odiato d’Italia. Per le sue discutibili decisioni guadagna subito articoli sui giornali italiani: una prima volta quando fa sparare da degli agenti contro un turista svizzero che aveva oltrepassato il limite di 500 metri imposto dalla capitaneria; poi, nel 1976, in occasione del processo contro un detenuto del carcere di Alghero che lo accusava di comportamento illegale, ma il dibattito si trasforma in una serie di accuse contro i metodi troppo duri di Cardullo. L’ avvocato difensore del detenuto non solo riesce a far assolvere l’imputato dalle accuse di calunnie ma riesce a concentrare l’attenzione dei media sugli avvenimenti interni al carcere. La realtà che emerge, anche nei quotidiani, è quella di un sistema di reclusione dove regnano i pestaggi da parte delle guardie verso i detenuti e anche sevizie psicologiche, la censura della posta e l’isolamento di alcuni detenuti appaiono come metodi normalmente utilizzati.
Ma le cose stanno cambiando per l’Asinara in quanto il 12 marzo 1976 viene emanato dal Ministero dei Beni Culturali e Ambientali un decreto che sancisce il vincolo paesaggistico per il notevole patrimonio ambientale presente sull’isola.

L’Asinara vive, quindi, questa sua nuova doppia faccia: da una parte è considerata luogo di patrimonio ambientale di antica e inestimabile bellezza ma contemporaneamente sede del carcere più duro d’Italia, oasi paesaggistica ma “luogo segregato”, sede del “lager di Stato”. Nonostante la grande importanza data a questo penitenziario, le sue strutture sono fatiscenti, in quanto sono sempre le stesse dal 1885, mai rinnovate se non in maniera minima. A proposito della pessima situazione delle strutture edilizie un deputato del P.C.I., Salvatore Mannuzzu, pubblica sul quotidiano sassarese un articolo nel quale denuncia: “…i detenuti sono a tre a tre, in celle di quattro metri per due metri e cinquanta… poca è l’illuminazione naturale, giacché a breve distanza dalla finestra… si erge un alto muro tinto per giunta di un grigio plumbeo…” e “… il regime dei colloqui appare irregolare… vi si è ammessi solo se si è in grado di dimostrare… la propria buona condotta…”. Incominciano ad interessarsi alle condizioni sull’isola vari esponenti della politica italiana, l’Onorevole Vincenzo Balzamo in un’interrogazione al Ministro di Grazia e Giustizia chiese se i diritti umani dei detenuti, anche quelli accusati dei reati più gravi, venivano rispettati secondo le norme costituzionali e i nuovi regolamenti carcerari, richiesta che viene fatta per cercare di smentire la voce che alcuni detenuti , come Curcio e Notarnicola, venivano trattati come “sepolti vivi”. L’anno dopo, cinque carcerati, tutti appartenenti all’estrema sinistra, guidano una manifestazione, che dopo risulterà pacifica, contro l’installazione dei vetri divisori, cristalli spessi un dito, che rendevano ancora più difficili i colloqui. La protesta viene repressa con pestaggi e violenze, e il giudice di sorveglianza, recatosi all’Asinara, ordina l’immediato ricovero del detenuto Carlo Horst Fantazzini, perché in gravi condizioni. La notizia degli avvenimenti arriva subito a Roma, dove viene predisposta un’ispezione al penitenziario e una visita da parte di alcuni parlamentari, al loro ritorno questi rilasciano una testimonianza in cui parlano di una situazione in cui l’odio e la paura convivono 24 ore su 24. In particolare il deputato Raffaele Costa, liberale, afferma l’inutilità a tener aperto un supercarcere, non più in grado di assolvere ai compiti che gli erano stati attribuiti al tempo della sua istituzione. Di lì a poco viene, inoltre, inviato alla stampa un documento, attribuito a Curcio e a Franceschini, in cui si affermava che la chiusura del carcere dell’Asinara era un obiettivo delle Brigate Rosse, organizzazione terroristica dell’estrema sinistra, responsabile di numerosi attentati, sequestri e omicidi negli anni Settanta. Entrambe queste dichiarazioni avranno un peso importantissimo sul procedimento di smantella- mento del carcere dell’Asinara.

 

Le brigate Rosse si muovevano, infatti, in quella direzione: il 24 settembre 1979 a Roma, durante un sopralluogo, la polizia è oggetto di una sparatoria da parte degli occupanti di una Giulia blu; tra i feriti, oltre ai poliziotti, vi è uno dei banditi, si trattava di Prospero Gallinari, uomo di spicco dell’organizzazione terroristica di sinistra. Nella sua “24 ore” viene rinvenuta la documentazione relativa ad un piano d’evasione dal carcere dell’Asinara, di 80 detenuti, da compiersi con lo sbarco nella costa dell’isola di motoscafi e gommoni, e con l’attacco al braccio di Fornelli con mitra e bombe a mano. La scoperta conferma ciò che da tempo era nell’aria e che era stato denunciato più volte, ossia che quel carcere non era per niente sicuro, il cosiddetto “lager” di Stato affidava la sua sicurezza più alla durezza delle condizioni interne al carcere che all’effettiva sicurezza delle misure di controllo esterne. Una volta scoperto il clima che vigeva, le ispezioni si fanno sempre più frequenti, come più frequenti si fanno le visite ai prigionieri “politici” e così in breve la tensione sale e tocca l’apice. La sera del 2 ottobre i detenuti del ramo di Fornelli insorgono, cogliendo di sorpresa le guardie, feriscono un agente e dopo che scatta l’allarme, scoppia una violenta battaglia interna al carcere; il braccio di massima sicurezza viene circondato, così, dalle forze dell’ordine, mentre i rivoltosi all’interno distruggono le celle, devastano la costruzione, lanciano sulle guardie rudimentali bombe fabbricate con le caffettiere ed esplosivo di cui, inspiegabilmente, erano in possesso. Il 3 ottobre, dopo ore di trattative con il magistrato di sorveglianza, a cui viene chiesto il trasferimento dei detenuti che avevano fomentato la rivolta, la ribellione viene sedata con il lancio di lacrimogeni. Le richieste vengono in parte accettate, ma non è questo il solo effetto che produsse la cosiddetta “battaglia dell’Asinara”. Incomincia infatti la ricostruzione delle strutture del carcere di Fornelli e il fatto che questa avvenga in tutta fretta porterà ad un’inchiesta e alla fine ad un processo inaspettato. Motivo principale della celebrazione del processo è il fatto che, a causa dell’eccessiva fretta nel ricostruire il carcere, gli iter burocratici venivano semplificati e accelerate le procedure amministrative che regolavano le gare d’appalto. Il generale Dalla Chiesa, che si occupa della ricostruzione, era interessato più che altro a ripristinare il sistema di sicurezza che non a controllare fatture e preventivi, e incarica il direttore Luigi Cardullo di verificare il rispetto di tutte le norme procedurali. Ma ad un certo punto qualcosa nella gestione degli appalti per la ristrutturazione del carcere non appare chiaro, e nel 1980 il direttore viene trasferito a Perugia senza che siano fornite per questo fatto valide motivazioni.

Sono state fatte varie ipotesi sui motivi del trasferimento: una riguarda i metodi troppo duri usati da Cardullo per mantenere l’ordine all’interno del carcere, un’altra parla di alcune insinuazioni anonime arrivate alla Guardia di Finanza che avrebbero portato a dei controlli fiscali e, in seguito, al trasferimento. È comunque sicuro che in quello stesso periodo la magistratura sassarese inizia ad indagare sui lavori di ristrutturazione del carcere di Fornelli, anche in seguito al fatto che il successore di Cardullo non avvalla le fatture che quest’ultimo gli avrebbe dovuto lasciare. Nel 1981 comunicazioni giudiziarie raggiungono i dirigenti delle imprese che si erano occupate della ricostruzione del carcere dell’Asinara sulla base di rapporti fiduciari, funzionari del Genio Civile e del Ministero, lo stesso comandante Luigi Cardullo e la moglie Leda Sapio, “la zarina” com’era chiamata dalla stampa. Tutti, secondo le indagini, coinvolti in un giro di tangenti e appalti truccati la cui cifra in eccesso si aggira intorno agli ottocento milioni. A metà dicembre del 1982 i coniugi Cardullo, raggiunti da mandato di cattura, finiscono in carcere, il direttore a Tempio, la moglie a Sassari.

A rendere ulteriormente più gravosa la loro posizione, nel processo che si apre il 28 marzo 1984 presso il Tribunale di Sassari, il Ministero di Grazia e Giustizia si costituisce parte civile. Cardullo, alle accuse sulla presenza di ingenti somme di denaro depositate sul suo conto bancario, risponde facendo riferimento alla virtù della moglie di essere una grande risparmiatrice. Ma la linea di difesa dell’imputato principale cade a seguito della dichiarazione della moglie, Leda Sapio, indicata come la manager del marito e che dichiara: “Sì, mio marito prendeva soldi da tutti”. Si arriva così a delineare una situazione in cui i due coniugi sono a capo di due fazioni contrapposte, vengono a galla vicende riguardanti corruzione, pagamenti in gioielli che poi si rivelano falsi, ma anche accuse di adulterio. Una storia nella quale Luigi Cardullo, ad un certo punto, chiama in causa i servizi segreti, affermando di essere stato reclutato da questi dal 1973, e di aver intercettato per loro conversazioni di detenuti, di aver violatola legge, continuando però ad assolvere le funzioni di direttore carcerario. E sempre secondo le affermazioni di Cardullo è in questo “doppio lavoro” che vanno cercate le motivazioni dell’aumento del conto in banca, non in tangenti o in vendita illegale dei prodotti agricoli della colonia penale. Il grande processo alla fine si conclude con la sentenza del 31 luglio 1987, che riconosce la gravità dei crimini commessi dagli imputati e in particolare da Luigi Cardullo e dalla moglie, ai quali viene inflitta la pena più grave ( 5 anni al primo e 4 alla seconda).

Questo avvenimento non avrebbe creato molto scalpore se non avesse avuto come sfondo il carcere dell’Asinara e se non fosse stato il risultato di uno strapotere acquisito con lo sfruttamento della presenza di quegli stessi detenuti, dei diritti dei quali il direttore avrebbe dovuto essere il garante. Strapotere che ha, appunto, consentito di fare dell’Asinara il carcere più duro d’Italia ed emblema della violenza del sistema carcerario. Quando si celebra il processo e viene pronunciata la condanna dei coniugi Cardullo, il carcere di Fornelli non esiste più. Il “lager di Stato” dove, come scrive un articolo de “La Nuova Sardegna”, “… i fari accesi tutta la notte e armi puntate a decine…” fanno si che “nessuno è mai interamente sol, il “monumento alla paura” dove “i detenuti e anche le guardie vi sono tenuti in condizioni subumane”, è stato definitivamente chiuso con un atto non ufficiale il 31 dicembre 1980.

Il 12 dicembre di quello stesso anno, le Brigate Rosse rapiscono a Roma il giudice Giovanni D’Urso, consigliere di Cassazione; tra le richieste avanzate dalle B. R. c’è la chiusura del braccio speciale di Fornelli, ma lo Stato cerca strade differenti, anche per non cedere all’organizzazione terroristica.

Subito a seguito di questi avvenimenti, dalla fine dell’anno, senza alcun annuncio, scatta all’Asinara “l’ora zero”; tutti i detenuti rinchiusi nel braccio speciale vengono trasferiti con destinazione ignota. Dopo questo trasferimento l’Asinara torna ad essere solo una colonia penale in cui scontano la loro pena, lavorando, circa 450 detenuti.

La diramazione di Fornelli, ormai deserta, resterà chiusa per oltre dieci anni, quando sarà ristrutturata e trasformata in carcere di massima sicurezza, con la costruzione di un vero e proprio “bunker” che ospiterà i detenuti per associazione mafiosa.

Il carcere dei mafiosi

Agli inizi degli anni Settanta arrivarono all’Asinara, come ho già detto, i primi detenuti condannati per associazione a delinquere di stampo mafioso. La storia più recente della mafia e fatta di clamorosi e sanguinosi attentati contro quei servitori dello Stato, giudici, carabinieri, poliziotti, che con coraggio ed abnegazione hanno tentato di contrastarla. Ma il fenomeno mafioso ha radici lontane: già nella seconda metà dell’Ottocento, nella Sicilia occidentale, i funzionari statali onesti erano lasciati nel più completo isolamento nel loro esercizio di garanti nella applicazione delle leggi dello Stato. Nel corso del XX secolo la situazione non cambiò di molto, se il giudice Giovanni Falcone, rispondendo alle domande della giornalista francese Marcelle Padovani, affermò “Sono semplicemente un servitore dello Stato in terra infidelium”. Dal semplice controllo del territorio, delle risorse idriche, tanto importanti in una terra arida, del mercato del bracciantato agricolo, la mafia si sviluppò, con gli anni, nel controllo del commercio, imponendo a tutti gli esercizi la protezione in cambio di una tangente da pagare, il cosiddetto “pizzo”.

In tempi più recenti l’associazione malavitosa entrò nel traffico illegale di sostanze stupefacenti trasformando la Sicilia in un grande laboratorio clandestino per la raffinazione dell’eroina. Negli ultimi decenni infine, grazie ai rapporti sempre più stretti con il mondo politico, la mafia si introdusse nel grande affare degli appalti pubblici per la costruzione delle grandi infrastrutture.

La mafia all’inizio non aveva un codice normativo ma era riuscita ad acquistare una propria identità urbana e rurale. Era profondamente radicata nella società ed ormai nella vita dei siciliani era diventata fenomeno ordinario. La comunità mafiosa era contraddistinta da un agire con una discrezione unica e soprattutto i suoi affiliati sono sempre riusciti a scambiarsi le informazioni con un determinato codice che cambiava da un clan all’altro. “La tendenza dei siciliani alla discrezione, per non dire al mutismo, è proverbiale. Nell’ambito di Cosa Nostra raggiunge il parossismo”. Pian piano la mafia cambiò la sua identità: da piccola organizzazione che si occupava dei problemi riguardanti i comuni della Sicilia, diventò una vera e propria società a livello nazionale guidato da determinate famiglie, che detenevano il potere, con l’appoggio di persone più o meno legate direttamente alla società.

Tra i primi 15 mafiosi sbarcati all’Asinara vi furono, nel 1971, Antonino Buccellato, Tommaso Scaduto, Gaetano Badalamenti, Giacomo Coppola, Rosario Terrasio; a settembre si aggiunsero altri 18 nomi tra cui Gaetano Riina e Giuseppe Brusca.

Dopo questa prima “ondata” di detenuti legati alla mafia, il carcere dell’Asinara ospitò nel 1993, dopo la ristrutturazione della diramazione di Fornelli, i nuovi vertici dell’associazione criminale siciliana. Questi, in seguito all’applicazione dell’art. “41 bis” del Nuovo Ordinamento Carcerario, fortemente voluto dai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e approvato solo dopo il loro assassinio, dovevano essere sottoposti a particolari misure di vigilanza. L’articolo “41 bis”consentiva di mettere in atto, all’interno delle carceri, misure di sicurezza più severe nei confronti dei detenuti considerati di maggior pericolosità sociale, come, ad esempio, evitare i contatti con altri detenuti appartenenti alla stessa organizzazione criminale, la riduzione dei colloqui a uno solo al mese e da effettuarsi attraverso vetri divisori, il controllo della corrispondenza, la limitazione temporale delle ore d’aria, da svolgersi in piccoli gruppi.

L’ultimo grande Boss della mafia siciliana detenuto nel Bunker di Cala d’Oliva, fino alla chiusura del carcere nel 1997, fu Salvatore Riina, detto “ Totò u curtu”, capo incontrastato del clan dei corleonesi che dopo 23 anni di latitanza, trascorsi quasi tutti a Palermo, fu arrestato nel 1993.

Tentate evasioni

I detenuti che hanno cercato di evadere dal carcere dell’Asinara sono diversi. Negli anni che vanno dal 1965 all’anno della sua chiusura, 1998, si sono verificate almeno una quarantina di tentate evasioni. La vicinanza dell’isola all’estrema punta nord-occidentale della Sardegna dava l’impressione che fosse facile attraversare lo stretto braccio di mare, magari a nuoto o con una imbarcazione rudimentale, e raggiungere le coste sarde.

In realtà era molto difficile e pericoloso tentare la fuga, perché le coste dell’isola venivano controllate sia di giorno che di notte con le motovedette; lo stretto di Fornelli era inoltre percorso da forti correnti che spingevano i malcapitati verso il mare aperto. Sono stati numerosi i casi in cui furono trovati carcerati annegati, recuperati il giorno dopo la fuga; fu trovato morto anche un detenuto che era riuscito ad avere una barchetta ma che dopo aver passato diversi giorni in balia delle onde era morto di inedia.

Solo un detenuto sardo, Costantino Barranca, ex braccio destro del bandito di Sedilo Peppino Pes, riuscì ad organizzare una fuga meditata e intelligente, nascondendosi in una grotta dell’isola per diversi giorni. Abituato a lunghi periodi di latitanza nelle campagne della Sardegna centrale, aveva con sé dei viveri ed anche una zattera rudimentale; stette per 22 giorni dentro la grotta, aspettando il vento favorevole per potersi allontanare dall’isola e contando sulla complicità di un detenuto “sconsegnato”, che cioè godeva di una certa libertà di movimento, in quanto addetto alla custodia del bestiame a pascolo brado. Ma le guardie lo trovarono, cercando vicino alla grotta dove viveva perché avevano notato nel terreno le sue impronte.

L’unica evasione riuscita e che quindi destò molto scalpore nell’opinione pubblica fu quella di Matteo Boe, che evase dall’Asinara in modo rocambolesco il primo settembre del 1986. Boe, originario di Lula, 28 anni era detenuto per il sequestro di Sara Niccoli, giovane ragazza figlia di un imprenditore, e avrebbe dovuto finire di scontare la pena nel 2002. Decise di organizzare l’evasione con Salvatore Duras, in carcere per furto.

Il loro piano risultò perfetto: dopo aver tramortito una guardia, riuscirono a raggiungere la costa in una cala dove una donna li aspettava con un gommone. La donna era Laura Manfredi, emiliana, futura moglie di Boe, che aveva conosciuto all’università a Bologna, dove entrambi studiavano.

Duras fu catturato poco dopo, mentre Boe restò latitante, nascondendosi in Corsica.

Sono passati dodici anni da quando il carcere dell’Asinara è stato dismesso per trasformare l’isola in un parco, ma negli ultimi tempi sono state avanzate diverse ipotesi sia per riaprire il carcere sia per trasformare i locali una volta utilizzati come luogo di detenzione in un museo che raccoglierebbe foto e documenti della storia contemporanea della Sardegna settentrionale. Le varie amministrazioni che si sono avvicendate nella provincia di Sassari dal 1998 ad oggi hanno presentato diverse proposte per riabilitare il Carcere dell’Asinara e renderlo un luogo d’interesse storico, ma ancora nessuna di queste proposte è stata accettata.

L’autore

Martina Sanna è nata ad Alghero (SS) il 19/08/1980, si è laureata il 26/11/2008 presso l’Università degli Studi di Bologna in Storia d’Europa-curriculum contemporaneo con una tesi di Laurea dal titolo Fertilia. Una borgata sarda con popolazione giuliano – dalmata. Attualmente frequenta presso l’Università di Bologna un master di secondo livello in Comunicazione Storica. Svolge un tirocinio come archivista presso la Fondazione Cardinale Giacomo Lercaro a Bologna. 

SANNA, Martina, «Il carcere dell’Asinara : gli anni del supercarcere», Diacronie. Studi di Storia Contemporanea : il dossier : Davanti e dietro le sbarre : forme e rappresentazioni della carcerazione, N. (1) 2, 2010.